martedì 14 maggio 2013

Trifoglio fibrino

(Menyanthes trifoliata)

(dialettale:   )


Qua e là, abbastanza frequenti in Valpiana, vi sono torbiere e praterie imbevute d'acqua, con l'erba un po' asfittica per la difficoltà di non soffocare in questi terreni acquitrinosi.
Ebbene proprio in questo habitat prospera una pianta palustre, il trifoglio fibrino, conosciuto fin dall'antichità tanto da considerare una tazza dell'infuso delle sue foglie un elisir di lunga vita.

Da rizomi striscianti e carnosi che s'allungano anche più di un metro sotto un velo d'acqua nascono foglie tripalmate, più rade ma più grassocce di quelle del trifoglio dei prati.


Come barchette essi cercano di solito un approdo su zolle un po' più solide, dove si fissano, continuando poi ad allungarsi e a strisciare nella fanghiglia, ancorandosi con radici che si sviluppano ai nodi.

Sembra impossibile che in una situazione così putrida il trifoglio possa esibire dei fiori di un fascino unico: su rametti terminali eretti porta da 10 a 12 fiori, composti da un calice con profonde incisioni al margine dei sepali e 5 petali bianco rosei che s'incurvano all'indietro a notevole distanza uno dall'altro.

È una struttura a simmetria radiale, resa più morbida dalla presenza sulla superficie interna di filamenti biancastri increspati, simili alle frange di certi tappeti.


Vistosi sono anche gli stami con antere scure a forma di freccia e l'unico pistillo giallastro
ben visibile al centro: una bellezza che dura poco, difatti il suo nome difficile deriva dal greco 'minutho' diminuire e 'anthos' fiore, forse proprio per la precoce caduta di ogni corolla. Per fortuna l'apertura di ognuno avviene in tempi successivi offrendoci per lungo tempo l'opportunità di ammirarli.

L'ovvia considerazione è che resta sempre valida l'affermazione di De Andrè ' ...dal letame nascono i fior...'